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Presentazione a Roma del libro sui Beati Martiri di Tibhirine, 19 novembre 2018

Testimonianza di François Vayne

È un momento molto commovente per me che mi trovo a evocare, davanti a tutti voi, il vivo ricordo dei miei amici martiri di Tibhirine. Non avrei mai potuto immaginare il loro destino quando, da bambino e da adolescente, frequentavo il monastero di Nostra Signora dell’Atlante, che era il “polmone” della Diocesi, come diceva il nostro Arcivescovo dell’epoca, il compianto Cardinale Duval, con cui mi piaceva parlare. Egli aveva sostenuto con tutte le sue forze la presenza di questo monastero, e spesso mi diceva nel suo stile francescano, sul tema dei rapporti tra cristiani e musulmani: “François, il futuro è nell’amicizia”.

Stasera vorrei innanzitutto rendere omaggio al cardinale Duval, che è morto di dolore quando ha saputo dell’uccisione dei monaci alla fine di maggio del ‘96 e il cui funerale è stato celebrato, insieme a quello dei sette beati martiri, nella Basilica di Nostra Signora dell’Africa. Grazie a lui, la Chiesa cattolica ha potuto rimanere in Algeria dopo l’indipendenza del Paese, senza legare il proprio destino a quello della Repubblica francese (che si era comportatamolto male nei confronti dei musulmani “indigeni”). Il cardinale Duval è stato un padre per tutti noi, cristiani e musulmani d’Algeria, desiderosi di creare insieme dei legami di fraternità e di amicizia più forti della paura e della morte, che avevano lacerato le due comunità. La sua Pasqua, unita a quella dei monaci di Tibhirine, è una promessa di gioia profonda al di là della sofferenza, come potrebbe essere stata la presenza di Maria ai piedi della croce di suo Figlio.

Detto questo, continuerò sul tono della testimonianza, poiché se Padre Giulio Cesareo, direttore della Libreria Editrice Vaticana, mi ha chiesto di scrivere questo libro, è a motivo della mia storia personale, perché sapeva che io sono nato e cresciuto in Algeria negli anni ’60 e ’70. In particolare ho conosciuto fratel Christian, che divenne priore nell’84, e fratel Luc (Frélou), il medico, perché gli altri sono arrivati più tardi, quando ho lasciato il mio Paese natale per andare a studiare in Francia.

Faccio parte della sesta generazione della mia famiglia nata in Algeria, discendente di immigrati italiani e spagnoli (con un francese che mi ha trasmesso il suo nome). Devo dire che il mio bisnonno spagnolo, ad esempio, parlava quasi meglio l’arabo che il francese ed era andato in Francia solo per combattere durante la prima guerra mondiale al fianco dei musulmani di Algeria.

Nato dopo l’indipendenza, nell’agosto del 1962, sono rimasto con la mia famiglia in Algeria (in realtà con mia madre e i nostri parenti, perché sono nato da padre ignoto). Ho quindi vissuto in questa Chiesa locale molto particolare, piccola ma vivace, dove si viveva l’esperienza di relazioni  semplici e familiari. La nostra Chiesa era povera ma ricca d’amore, come quella dei primi cristiani (in effetti è rimasta così e questa è la sua forza). Il monastero di Tibhirine era il nostro luogo rigenerante.

Ricordo l’accoglienza di Christian (che non era ancora priore), lui stesso ci apriva il cancello quando arrivavamo ​​(con i piedi nudi nei suoi sandali di corda, simbolo della sua vita donata).

Mi ricordo della processione dei malati che andavano da fratel Luc, in piedi davanti alla porta del suo dispensario (il medico che curava sia i corpi che le anime e che somigliava un po’ a Padre Pio).

Mi ricordo la cappella, silenziosa, povera, il cuore della comunità, una sorta di “centrale energetica” dove, nella preghiera, l’amore si rinnovava affinché i fratelli potessero accogliere, ascoltare, curare la gente e anche lavorare la terra, accanto ai loro soci musulmani.

Mi ricordo di avere accompagnato a Tibhirine un’amica musulmana, Fatiha, che portava avanti un dialogo regolare con Christian.

Quando ho saputo del rapimento dei monaci (ero a Parigi, al Salone del Libro, nel marzo del ‘96), ho subito pensato ai piedi nudi di Christian nei suoi sandali (“Come sono belli, sulle montagne, i piedi del messaggero”, dice il profeta Isaia…), alla processione di coloro che andavano da fratel Luc, una figura cristica e mi è apparsa nell’anima la cappella dove tutta la loro vita trovava la sua unificazione.

Con Pierre Claverie, (Vescovo di Oran, martire pure lui), “pied noir” come me, a cui mi sentivo molto vicino, ho condiviso molte cose durante il periodo del rapimento dei monaci; ci raccontavamo i nostri sogni e speravamo con tutto il cuore di rivederli vivi. Sapevamo quanto fossero amati dalla popolazione musulmana. Avevano giurato di non abbandonare quella popolazione in preda alla violenza e sono morti in condizioni misteriose, probabilmente legate al fatto che volevano essere fedeli ai loro vicini e amici. Le indagini proseguono (sono coinvolti la giustizia francese e il governo algerino) e dobbiamo dare tempo al tempo “Non tutte le verità possono essere dette a caldo”, ha affermato il Presidente algerino Bouteflika in un’intervista trasmessa sul canale LCI (marzo 2004).

Tuttavia non si tratta di una persecuzione di cristiani: non dimentichiamo che sono morti anche 114 imam e che circa 150.000 persone sono state vittime della violenza durante il “decennio nero” degli anni ‘90. Il sangue dei cristiani e il sangue dei musulmani si sono mescolati, per questo siamo più che mai fratelli! Poiché esiste un “ecumenismo di sangue” che collega fra loro dei cristiani di diverse confessioni, potremmo parlare di una “fratellanza islamo-cristiana, interreligiosa, di sangue “.

La cosa importante è il messaggio spirituale dei sette martiri, che ricorda quello dei sette fratelli Maccabei, martiri di Israele, che avevano resistito al Re Seleucide.

Oggi vorrei soprattutto confrontare la loro testimonianza con quella dei primi martiri del Nord Africa, i martiri scillitani (sette uomini e cinque donne uccisi per ordine del proconsole nel secondo secolo) e, su un altro versante, anche quella dei Sette Dormienti di Efeso, meglio conosciuti. È interessante, infatti, confrontare i sette monaci dell’Atlante con i Sette Dormienti, gli uni e gli altri ponti tra il cristianesimo e l’islam.

La tradizione racconta che nel secondo secolo, sotto la persecuzione di Decio, sette ufficiali del palazzo imperiale, originari della città di Efeso, accusati di essere cristiani, avevano cercato rifugio in una grotta tra le montagne, dove vennero trovati come addormentati due secoli dopo, nel 418, in ottimo stato di conservazione. Il Corano riecheggia questa leggenda, detta della Caverna, nella Sura 18, che invita a rifiutare gli idoli e a rifugiarsi in Dio per permettergli di riversare su di noi la sua misericordia. Su iniziativa dell’islamologo Louis Massignon, un pellegrinaggio annuale ai Sette Dormienti si svolge ogni anno in Francia dai tempi della guerra d’Algeria, per avvicinare cristiani e musulmani.

I sette Dormienti moderni di Tibhirine ci chiamano a resistere insieme ai nuovi paganesimi, a unirci in un pellegrinaggio islamo-cristiano della non violenza e dell’amore disarmato, nel nome del rispetto della vita e della libertà di adorare Dio e lui solo (contro i falsi dèi del potere, del denaro, della violenza…).

Questa missione ormai universale dei beati martiri di Tibhirine è radicata nell’origine del monastero trappista in Algeria. Infatti, durante la guerra di conquista dell’Algeria, che è durata più di quindici anni (con massacri della popolazione paragonabili a quelli commessi dalla Repubblica francese in Vendée), i prigionieri francesi del capo della resistenza musulmana, Abdel-Kader, danno testimonianza del suo stupore per il fatto che “i cristiani non pregano”. Il vescovo di Algeri, allora, fece chiamare dei trappisti nel 1843 (quattro anni prima della sconfitta di Abdel-Kader), che giunsero dalla Francia per manifestare la bellezza della preghiera cristiana e così formare un ponte di incontro con i musulmani.

È quindi questo messaggio spirituale che abbiamo cercato di valorizzare nel libro. Il mio amico Padre Georgeon, il postulatore, che ho contattato personalmente, mi ha mandato dei documenti e io ho scritto il testo, che poi lui ha riletto con attenzione e precisione, completandolo. Si trattava, per me, di onorare questi martiri, per intercessione dei quali ho ricevuto una grande grazia un anno dopo l’annuncio della loro morte (la grazia di conoscere mio padre all’età di 35 anni e di fare pace con lui, un anno esatto dopo la data presunta della morte dei monaci).

Quando ho iniziato a scrivere il libro, il 17 luglio scorso, mi sono reso conto che era l’anniversario dei martiri scillitani (cari a fratel Christian) e mi sono sentito “accompagnato” da loro nella comunione dei santi. Ho avuto l’intuizione che i martiri di Tibhirine facessero parte della stessa stirpe. D’altronde, la copertina del libro lo mostra bene: vi vediamo la riproduzione di un mosaico della Cappella Redemptoris Mater in Vaticano, nel cuore della Chiesa, che evoca i mosaici antichi mentre raffigura fratel Christian de Chergé, martire moderno il cui sangue è già seme di riconciliazione e di unità.

Sono le sette parole di Cristo sulla croce che mi hanno ispirato i sette capitoli, come “Donarsi nelle piccole cose di ogni giorno” (Padre, nelle tue mani …), o “Attraversare le crisi” (Perché mi hai abbandonato), o “Accogliere le sorprese di Dio” (Oggi sarai con me…).

Il mistero della fecondità della croce è al cuore del messaggio di Tibhirine e quindi di quest’opera che è dedicata a loro.

Ciascuno dei sette capitoli è come un dialogo con loro, allo stesso tempo concreto e spirituale. Il filo d’oro che collega fra loro tutti gli aspetti della vita del cristiano è il suo rapporto personale con Dio: i monaci testimoniano la gioia di un’esistenza che non è “divisa in compartimenti” ma profondamente unificata.

Per me, nel mio mestiere di giornalista, i monaci di Tibhirine sono dei modelli. Per 26 anni, a Lourdes, ho ripensato a fratel Luc durante ogni processione dei malati. E adesso, lavorando per la Terra Santa al servizio del dialogo interreligioso, mi sento sulla stessa lunghezza d’onda dei fratelli dell’Atlante, costruttori di passerelle tra le religioni abramitiche.

Per essere costruttori di ponti con l’Islam, durante il loro cammino evangelico, i monaci dell’Atlante avevano incontrato Charles de Foucauld: in un modo o nell’altro li aveva ispirati, lui che aveva capito che l’umiltà, la preghiera, la presenza sono la chiave dell’incontro con i credenti musulmani. Morto il 1 dicembre 1916, beatificato il 13 novembre 2005, era stato trappista in questa comunità monastica in Algeria prima di andare a vivere nel deserto.

Il testamento di fratel Christian porta la data del 1 dicembre, come se avesse voluto stabilire un legame con fratel Charles (ucciso un 1 dicembre nel suo eremo da ribelli alleati con la Germania contro la Francia durante la prima guerra mondiale). È morto per motivi politici, quindi, come Cristo (come ricordava Mons. Teissier, arcivescovo emerito di Alger, in occasione di una conferenza al PISAI di Roma, rispondendo a una domanda sulla morte ancora inspiegabile dei monaci di Tibhirine).

Essi avevano per la maggior parte scoperto Charles de Foucauld in Algeria: Paul, Célestin e Christian durante la guerra d’indipendenza, Bruno durante il servizio militare, Christophe durante la sua attività di cooperante in Algeria con i bambini portatori di handicap e Michel quando era impegnato nelle case per immigrati in Francia…

Christophe, come Bruno d’altronde, aveva pensato di entrare nei Piccoli Fratelli di Gesù, la congregazione nata dal carisma di Padre de Foucauld, prima di partire per Tibhirine, con la chitarra a tracolla, desideroso di unirsi al sacrificio redentore di Cristo.

Charles de Foucauld ha visto il suo sogno realizzarsi a Tibhirine “Pregate Dio perché io compia qui l’opera che mi ha affidato: che io stabilisca, per la sua grazia, un piccolo convento di monaci ferventi e caritatevoli, che amino Dio con tutto il cuore e il loro prossimo come se stessi; una “zawiya” (fraternità) di preghiera e di ospitalità che irradi una tale pietà che l’intera zona ne sia illuminata e riscaldata; una piccola famiglia che imita così perfettamente le virtù di Gesù che tutti, nei dintorni, si mettano ad amare Gesù!”

Padre de Foucauld era infatti un punto di riferimento comune per tutti e sette, una guida che gli assomigliava, in quanto molto a lungo aveva cercato la sua strada (come molti di noi, certamente). Vedrete, leggendo il libro, che le vite dei monaci convergono verso l’Algeria, ma non in modo lineare. Bruno era un insegnante, Célestin un educatore, Paul un idraulico, Michel un operaio.

Alcuni incontri li hanno segnati per tutta la vita, come, ad esempio, quello di Célestin con Si Ahmed Hallouz, un ex combattente del Fronte di Liberazione Nazionale che aveva salvato durante la guerra d’Algeria e che è venuto adaccoglierlo molti anni dopo, quando arrivò a Tibhirine. O come quello di Christian con Mohammed, un amico musulmano che era intervenuto per proteggerlo durante la guerra di indipendenza, pagando con la vita quel gesto fraterno. Christian era tornato con la memoria a lui, considerando il suo sacrificio come un gesto cristico (Christian era segnato dall’ideale della sostituzione, la “Badaliya” in arabo, sviluppato dall’islamologo Louis Massignon, che consiste nell’offrire la propria vita per il bene di un’altra vita, un ideale per il quale la Vergine di Pokrov – con il suo manto che protegge tutti – è stata scelta da lui come patrona).

Il libro presenta il tema della relazione fraterna con l’Islam, nel contesto della vita quotidiana dei monaci scandita dalla preghiera, dal lavoro, dalle crisi che si trovano a vivere, dalla volontà di dialogo, dall’amore a Maria … Questi temi sono trattati in ogni capitolo in cui la figura di uno dei monaci viene messa in rilievo.

Donarsi goccia a goccia nelle piccole cose della vita quotidiana (primo capitolo), fino in fondo, senza risparmiarsi, è una chiamata che è rivolta a noi tutti, indipendentemente dal nostro stato di vita. E questo vale anche per gli altri temi.

Lo scopo del libro è di fare insieme ai monaci una lettura spirituale dei fatti che hanno vissuto, come essi stessi hanno fatto attraverso i loro scritti. Per esempio, nel secondo capitolo, sul tema della preghiera, vediamo che la cappella di Tibhirine era situata al posto della ex cantina (chai), dove si faceva il vino: che simbolo! “Possa il sangue degli uomini di pace essere un seme di pace”, scriveva fratel Michel, del quale è stata ritrovata la veste monastica, il suo abito di preghiera, sulla strada, dopo il rapimento, come ultimo messaggio. Il capitolo sul lavoro mostra una vita semplice, senza fronzoli, al fianco dei vicini musulmani e ci invita a dare al nostro lavoro la dimensione essenziale del servizio. Il capitolo sulle crisi attraversate, con le visite degli islamisti armati al monastero – dove si facevano curare da fratel Luc – ci pone di fronte ad una scelta di coscienza nella nostra vita, alla necessità di vedere come prima cosa le persone al di là delle etichette, di riconoscere Dio in ogni essere umano, anche il meno amabile. Il capitolo sul dialogo e sui rapporti ci può dare il gusto di diventare anche noi delle persone-sacramenti (come diceva Mons. Teissier) e di mettere in pratica quello che sottolineava fratel Christian: “La vocazione dell’uomo è di unire, è il suo modo di essere una vocazione divina”. Il capitolo su Maria chiarisce tutto, perché vediamo che i monaci sono stati rapiti tra l’Annunciazione e la Visitazione, quasi a dirci che la Chiesa è se stessa solo quando guarda fuori da sé, quando esce fuori, come Maria quando andò ad aiutare Elisabetta (invece di rimanere chiusa sul dono che aveva ricevuto). Infine, l’ultimo capitolo ci fa meditare sulla dimensione interreligiosa, con l’immagine dell’acqua in fondo al pozzo, che non è né musulmana né cristiana, ma è “l’acqua di Dio”, secondo l’espressione di un vicino musulmano riferita da fratel Christian. In questo capitolo si parla del Ribât, questo gruppo islamo-cristiano fondato a Tibhirine, i cui membri erano presenti la notte del rapimento, ora eredi del messaggio da mettere in pratica e diffondere universalmente.

In conclusione, direi che il libro, partendo dalla testimonianza dei sette monaci, può aiutare ogni cristiano a unificare la sua vita attraverso il rapporto con Dio in tutti gli aspetti (una soluzione al clericalismo che crea una “scissione” nelle persone, una vita a compartimenti e ai suoi effetti devastanti). Inoltre questo libro può anche incoraggiare il lettore a sentirsi responsabile della Chiesa spingendola ad uscire dai propri interessi specifici, per trovare il proprio centro di gravità nel popolo che è chiamata a servire (cf.p. 126 dell’edizione in italiano).

Testimoni della trascendenza e della fraternità, i martiri di Tibhirine sono ai miei occhi quella “Chiesa povera per i poveri” auspicata da Papa Francesco. Il loro messaggio si rivolge a tutta la Chiesa, per una vita più spoglia e comunitaria, liberata dal clericalismo e radicata in Cristo attraverso la preghiera, il servizio e la vicinanza basata sull’amicizia. È una risposta alla “crisi della Chiesa secolarizzata” descritta da fratel Christian nel gennaio 1995. Il Corano, nella Sura 5, 82, parla in modo positivo dei cristiani perché tra loro “ci sono dei sacerdoti e dei monaci che non si gonfiano d’orgoglio”. L’umiltà dei martiri di Tibhirine, che sono stati semplicemente “un segno sulla montagna” (l’emblema del loro monastero), è certamente un cammino regale per la riforma della Chiesa che è in corso, affinché sia sempre di più “sale della terra e luce del mondo”.

Ospiti nella casa dell’Islam, i sette martiri di Tibhirine hanno acceso una luce nella notte di questo mondo. Il loro esempio e il loro messaggio possono irrigare i giardini delle nostre vite (la parola Tibhirine, infatti, significa proprio “giardini irrigati”).

Essi lanciano un appello ai viventi e risvegliano in tutti il desiderio di vivere diversamente, come testimoniato, ad esempio, da questa preghiera registrata nel Libro d’oro del monastero, scritta da una donna musulmana anonima alla quale non possiamo non associarci “Dio Padre, il Misericordioso, l’Unico, Colui che riunisce, che Tu sia lodato! Per le tracce della vita dei monaci, qui a Tibhirine e altrove, che Tu sia lodato! Per questo luogo, per coloro che ora lo coltivano con umiltà, che Tu sia lodato! Tu, Signore, il Misericordioso, Colui che vive oggi, fai di questi nostri sette fratelli delle luci nelle nostre notti, fai di ciascuno di noi degli agenti del perdono, come lo era Padre Christian. Fai di noi degli uomini liberi interiormente, come lo era Frélou. Fai di noi degli uomini e delle donne di pace, alla maniera di fratel Christophe. Fai di noi degli uomini che accolgono l’altro, alla maniera di fratel Célestin. Fai di noi degli uomini del sorriso e della discrezione, come lo era fratel Paul. Fai di noi degli uomini di fede e di speranza, come lo era fratel Bruno. Fai di noi degli uomini di silenzio e abnegazione, come fratel Michel” (N’oublions pas Tibhirine, Bayard, pp.98-99).

FV

1 Comment

  1. Hortensia ha detto:

    Grazie per questo articolo, ma soprattutto per il suo libro

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